Secondo il nuovo studio, condotto negli Stati Uniti, rivendere i capi usati potrebbe non ridurre le emissioni derivanti dall’industria dell’abbigliamento.
Molti marchi di fast fashion, da tempo, provano a incrementare loro impegno per quel che concerne l’impatto della loro produzione sull’ambiente.
Un recente studio, condotto da Trove, negli Stati Uniti, però, mostra un’altra realtà: infatti, in termini ambientali, i programmi attuati dalle aziende coinvolte non sarebbero stati efficaci al fine di rivendere gli abiti usati attraverso le piattaforme digitali, in modo da attuare una economia circolare dell’abbigliamento.
Scopriamo insieme i dati emersi da questa ricerca.
Rivendere capi usati per ridurre le emissioni: lo studio di Trove
Trove, sistema di recommerce, ha condotto uno studio focalizzandosi su come le nuove tecnologie aiutano le aziende della moda a vendere i propri prodotti attraverso il canale del mercato dell’usato.
La ricerca, nello specifico, è stata condotta con l’aiuto anche di Worldly, una società che si occupa di analizzare i dati, avendo un occhio attento alla sostenibilità.
Secondo i dati che emergono da questo studio, la rivendita dei capi usati, su piattaforme in rete, in sostanza, ridurrebbe fortemente l’emissione di CO2, con una percentuale pari allo 0,7%.
Un dato importante, ma non sufficiente, considerando che alcuni brand del fast fashion come Shein, Zara e H&M, I quali incidono molto sull’ambiente, considerando il fatto che producono 11,5 chilogrammi di CO2 per ogni singolo capo prodotto.
Anche se questi marchi utilizzano materiali sostenibili e tecnologie utili al riciclo dei tessuti, la rivendita dei capi usati, in sostanza, comporta un ulteriore impatto ambientale.
Consideriamo, ad esempio, una maglietta, inizialmente venduta a otto dollari, rivenduta – poi – a 0,20 €: non si guadagna abbastanza e, oltretutto, si incrementa l’impronta di carbonio, a causa delle altre attività che circondano questo tipo di vendita, ad esempio la logistica inversa.
La possibile soluzione
Nella ricerca, inoltre, non sono stati esaminati esclusivamente i marchi del fast fashion, bensì anche quelli dell’alta moda, come Ralph Lauren e Tory Buch, che producono anche 16 kg di CO2 per ogni capo, seguiti da Patagonia e The Nord Face che mettono all’incirca 12,5 kg di CO2 per capo realizzato.
In sostanza, la soluzione sarebbe quella di produrre meno articoli e di incentivare, notevolmente, la rivendita dell’usato, in modo da ridurre le emissioni e bilanciare, di conseguenza, l’impatto climatico.
In questo contesto, come si può facilmente immaginare, si rischia di cadere nella trappola del greenwashing, di cui si parla da diverso tempo e che potrebbe riguardare, nei fatti, anche la stessa di vendita di capi utilizzati anche se involontariamente.
Qualora i brand vogliono raggiungere gli obiettivi zero emissioni, dovrebbero, secondo questo studio, riorientare gli investimenti, per quel che concerne i materiali sostenibili e i consumi idrici.