Al dipendente che è costretto a dimettersi a causa dello stress derivato dal lavoro spetta un risarcimento? Ecco cosa prevede la Cassazione.
In molti si chiedono se, in caso di dimissioni per stress da lavoro, il lavoratore avrà diritto a un risarcimento. La domanda è molto importante, considerando il fatto che le dimissioni per giusta causa consentono al dipendente di poter fruire di un assegno di disoccupazione dall’INPS e l’indennità sostitutiva del preavviso. Scopriamo insieme cosa prevede la Cassazione nel momento in cui il dipendente rinuncia alle proprie mansioni a causa dello stress.
Dimissioni per giusta causa: cosa sono e cosa spetta al lavoratore
Le dimissioni per giusta causa non scaturiscono dalla scelta libera del dipendente, ma sono una conseguenza di un comportamento scorretto da parte della datore di lavoro, il quale è responsabile di un inadempimento datoriale.
In questi casi, dunque, al dipendente, costretto a dare le dimissioni a causa dei comportamenti scorretti del proprio datore di lavoro, spettano di diritto l’assegno di disoccupazione dell’INPS ossia la NASPI, il TFR, previsto anche in caso di licenziamento.
Inoltre, al lavoratore spettano anche l’indennità sostitutiva del preavviso, il risarcimento commisurato all’entità del danno subito, previa causa contro l’azienda per la quale lavorava.
I casi in cui si verificano le dimissioni da stress
Il lavoratore può dimettersi per giusta causa quando si verificano determinati comportamenti in azienda.
Tra questi, possiamo annoverare il mobbing, ossia quel comportamento del datore di lavoro che diventa umiliante e persecutorio, fino ad emarginare totalmente il proprio dipendente. Tale atteggiamento, nei fatti, si basa su atti ripetuti nel tempo con l’unico fine di danneggiare la salute psicofisica del dipendente.
C’è, poi, lo straining, simile al mobbing, anche se più leggero: in questo caso, infatti, si rileva un solo comportamento atto che provoca stress all’interno dell’ambiente di lavoro.
Inoltre, a questo tipo di comportamenti, si affiancano anche il mancato pagamento dello stipendio, l’omissione del versamento dei contributi previdenziali, nonché il demansionamento, con il quale si relega il dipendente a mansioni inferiori, senza possibilità di crescita e, infine, minacce, insulti e ingiurie.
La Cassazione, con l’ordinanza numero 28923/2023 si è occupata del caso di una lavoratrice che si è dimessa a causa dello stress subito in relazione a un demansionamento ingiusto da parte del datore di lavoro e ad altre situazioni che l’hanno indotta a rinunciare al proprio posto.
In un primo momento, l’azienda è stata condannata a risarcirla anche se, in seguito, in appello la situazione è cambiata e, pertanto, la donna ha presentato ricorso in cassazione.
Il mobbing, dunque, è stato definito, dalla Suprema Corte, come una serie di comportamenti che puntano al danneggiamento del dipendente che, nei fatti, è perseguitato. Pertanto, alla base di questo comportamento, deve esserci una strategia che punti a recare danno al lavoratore. Diversamente, si può parlare di stress da lavoro, non scaturito da atti persecutori.