La sentenza della Cassazione ha condannato al risarcimento un datore di lavoro a causa dell’ambiente stressante e delle vessazioni subite da un dipendente
Spesso l’ambiente di lavoro può diventare ostile e generare stress incidendo pesantemente anche sulla qualità di vita del lavoratore. Quando lo stress è tale da generare conseguenze anche a livello di salute mentale, a rispondere per il danno cagionato deve essere il datore di lavoro. E’ questo il sunto di una sentenza recente emessa dalla Corte di Cassazione, che ha stabilito che lo stesso datore di lavoro dovrà risponderne anche quando non si configura l’ipotesi di mobbing.
La sentenza 2084/2024 del 19 gennaio scorso, è stata emessa dagli “ermellini” ribaltando di fatto il giudizio della Corte d’Appello, fissando il principio chiaro, secondo il quale, la priorità assoluta va sempre data alla salute psicofisica del lavoratore e non alla logica produttiva o economica.
La sentenza riguarda una fattispecie specifica in cui un dipendente di un’azienda marchigiana ha citato in giudizio il proprio datore di lavoro per ottenere il risarcimento per il danno psichico subito in seguito a pressioni o persecuzioni subite durante lo svolgimento del proprio lavoro. In primo grado i giudici avevano dato pienamente ragione al lavoratore quantificando il danno subito e individuando nel datore di lavoro il responsabile, mentre in appello i giudici avevano assolto quest’ultimo da ogni addebito, poiché il “comune intento persecutorio” rappresenterebbe l’elemento costitutivo del mobbing.
Secondo la Corte d’Appello, le uniche responsabilità attribuibili al datore di lavoro sarebbero le carenze gestionali e organizzative che non possono in nessun caso essere assimilabili alle fattispecie che integrano il mobbing. La Cassazione è stata di diverso avviso. Seceondo i giudici di terzo grado, la tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore non può ammettere attenuanti o sconti. Le misure di tutela e prevenzione non possono in ogni caso venire meno per dare priorità alle esigenze produttive.
Pertanto, secondo gli ermellini, per rintracciare una responsabilità in capo al datore non sarebbe necessario un “unificante comportamento vessatorio”: basta l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possono risultare lesivi della personalità morale del lavoratore sottoposto a condizioni stressogene. Secondo quanto riporta testualmente la sentenza emessa dalla Cassazione “la violazione da parte del datore del dovere di sicurezza (articolo 2087 del Codice civile) ha natura contrattuale e, per questo, il rimedio esperibile dal dipendente è quello della responsabilità contrattuale“.
Dalla sentenza si evince chiaramente che alcune condotte, anche non essendo palesemente vessatorie, possono risultare esorbitanti o incongrue rispetto all’ordinaria gestione del rapporto di lavoro, soprattutto quando si protraggono per lungo tempo. Tali condotte, secondo la pronuncia della Cassazione, violerebbero quanto prescritto nell’articolo 2087 del Codice civile qualora contribuiscano alla creazione di un ambiente logorante e produttivo di ansia. Ecco perchè il datore di lavoro può essere condannato al risarcimento.